I vertici del disagio
Alessandro Garella
È fin troppo noto che Unbehagen in der Kultur sia un titolo freudiano polisemantico: lo si intende infatti come Disagio nella o della civiltà, come Discontent in Civilisation o Civilisation of discontent. I suoi stessi termini sono riguardati diversamente: Kultur come cultura o civilizzazione/civiltà (Civilisation), Unbehagen come disagio o malessere o ansia o apprensione o scontento (Contardi, 1999). Ci si è interrogati se l’espressione in der Kultur denoti Unbehagen come una condizione interna o esterna alla Kultur, cioè da essa generata o imposta dall’esterno, per quanto particolare come può essere l’individuo. E ancora, non si può trascurare la questione, connessa a quanto precede, di identificare e descrivere la fonte del disagio, interna o esterna che sia. In altri termini, il titolo dell’opera costituisce la rappresentazione manifesta, condensata e quasi ‘visiva’, di un’analisi nel duplice senso di lavoro psicoanalitico e di analisi riflessiva sui rapporti fra l’essere umano e la civiltà.
Per questo l’opera non è un’opera di storia né di antropologia, ma come sostiene Assoun (1993) è un’opera metarispetto alle scienze umane del suo e, in parte ancora, del nostro tempo in quanto “assume a suo oggetto lo psichismo umano, attraverso alcuni aspetti parziali, come punto di partenza, provvisorio e relativo, e scopre che tale oggetto nella sua universalità non possiede la completezza e coerenza che in altri campi si assume a priori (o metafisicamente) che esso abbia” (Garella 2003). Essere meta, in questo caso, non coincide con l’essere un testo di Metapsicologia, per quanto scritto in un decennio di grande fermento intellettuale di Freud, con l’elaborazione della seconda topica e di una nuova concezione dell’Io. Una particolarità di questo testo meta – peraltro condivisa con altre opere freudiane – è quella di sorprendere il lettore proponendogli scenari e punti di vista che rivelano la potenza immaginativa e riflessiva della metapsicologia capace di illuminare diversamente ambiti che non sono quelli clinici e psicopatologici: humani nihil a me alienum puto.
Con queste premesse, propongo un taglio di lettura dell’opera, riprendendo considerazioni esposte in precedenza (Garella 2005), allo scopo di fornire una succinta prospettiva di triangolazione dell’Unbehagen: vorrei proporre cioè di guardare al disagio come espressione dell’interazione fra tre vertici dell’essere uomo – Kultur o civiltà, individuo, e soggetto. Questo tentativo si ispira alla tesi freudiana della doppia ineluttabile natura dell’Unbehagen, relativa da un lato al malessere intrinseco all’individuo nei suoi rapporti con la civiltà e dall’altro al disagio della civiltà nel suo porsi di fronte all’individuo. Se due vertici del triangolo sono presenti con chiarezza nel testo freudiano – civiltà e individuo –, del terzo però non ci sono riferimenti diretti. Occorre allora cercare di trovargli un posto nell’impianto teorico presente nel testo freudiano.
In Freud la sostanza della civiltà appare costituita dalla compresenza di due fattori: a) il guadagno rappresentato dalla sicurezza e protezione nei rispetti della natura e ottenuto tanto dall’individuo, nella forma di una migliore sopravvivenza materiale, quanto dalla civiltà sotto forma di sviluppo sociale, economico e intellettuale, la Geistigkeitfreudiana; b) la perdita rappresentata dalla rinuncia pulsionale da parte dell’individuo, il quale deve rinunciare alla soddisfazione immediata, al piacere senza ostacoli, a una libertà senza freni, dando luogo alla distruttività che ne consegue e che accresce quella, silenziosa, di Thanatos. La perdita concerne anche la Kultur, dato che quest’ultima è chiamata a confrontarsi con gli ostacoli e le rinunce impostele dalla presenza di individui le cui pulsioni non si rivelano domesticabili nella maniera desiderata, e quindi a vivere la disillusione di un progresso senza limiti e senza conflitti e/o di una stabilità senza attriti.
Verrebbe da pensare che nella relazione fra individuo e società esista una proporzionalità inversa, tale che la crescita del peso (valore) di uno dei due poli della relazione produca una diminuzione nell’altro. Ma la questione del peso/valore è in realtà quella del significato che ciascun polo ha per l’altro e del fatto che i significati sono compatibili fino a un certo punto perché – e qui è la posizione freudiana e psicoanalitica generale – essi esprimono posizioni contrastanti, anzi opposte e perciò intrinsecamente conflittuali. L’individuo non può consentirsi la libertà che vorrebbe, pena l’isolamento dagli altri individui e l’esposizione ad una natura indifferente se non ostile; egli perciò deve fondare se stesso sull’altro (individuo, famiglia e infine civiltà) come il suo prossimo, indispensabile e perciò stesso odiato. La civiltà necessita della creazione, organizzazione e sviluppo di tutti gli individui che le afferiscono, pena la stasi, la decadenza, la rovina, e quindi cerca sin dagli inizi della singola vita di captare le energie, quelle erotiche e quelle aggressive con un processo di domesticazione (acculturazione) per indirizzarle alla formazione di un apparato psichico che (cor)risponda alle sue esigenze. La conclusione è quella espressa dalla Zaltzman (1998): “Che cos’è l’uomo per l’uomo? Non un dio, né un lupo, ma un effetto di cultura”.
L’effetto di cultura, l’uomo per l’uomo, non è più rappresentato dall’individuo come tale ma da quella parte di apparato psichico il cui sviluppo è stato maggiormente influenzato dalla civiltà, poggiando e insieme contrastando il fondo individuale rimasto irraggiungibile. Il risultato dinamico di questo sviluppo corrisponde a ciò che, nell’adulto e specialmente nella civiltà occidentale, si è giunto a chiamare persona. Il confronto/contrasto tra individuo e persona rivela l’interiorizzazione di quello tra individuo e civiltà: il nevrotico – sostiene Freud, ma forse è chiunque si trovi immerso nella sofferenza psichica – è l’individuo che protesta nei confronti della civiltà perché quest’ultima lo costringe ad essere una persona, condizione che egli non sente corrispondergli. L’individuo è ‘ostile’ alla civiltà; la persona ne è il rappresentante, per quanto combattuto: il campo dello scontro è immanente all’essere umano.
È a questo punto che compare il terzo vertice del triangolo del disagio: il soggetto, termine poco presente nel Disagio(e nell’intera opera freudiana), dove le attenzioni sono tutte per le istanze, l’Io in particolare. È l’Io infatti ad essere l’attore principale della scena del disagio, agente della realtà ma vincolato dalle spinte pulsionali e dalle richiesta dell’Ideale e del Super-io. Il soggetto, nel discorso freudiano, è assente, forse perché sentito come impregnato di un significato coscienzialistico e fissato dalla tradizione filosofica moderna, da Cartesio in poi, nella dimensione metafisica e trascendentale di essere razionale. Nella concezione freudiana invece la psiche si estende ben oltre la coscienza e il pensiero vero e proprio è ben diverso da quello cosciente, quindi non v’è posto per il soggetto cosciente e razionale della filosofia: il vero essere psichico è inconscio.
Nel corso del Novecento, tuttavia, secondo una certa lettura del dibattito filosofico (Cortella 2020), ha avuto luogo una progressiva modificazione del centro di attenzione filosofica con il passaggio dal paradigma del soggetto a quello del linguaggio. In tale passaggio la nozione filosofica di soggetto è andato perdendo le connotazioni ontologiche precedenti (metafisiche, in quanto essenzialistiche e sostanzialistiche), acquistando invece caratteristiche diverse, più dinamiche e meno legate al piano della coscienza. In Foucault per es. il soggetto ha acquistato storicità: la ‘morte dell’uomo’ in quanto sostanza metafisica dell’umanità e la concezione della coppia soggetto/oggetto nei termini di un apriori storico esprimono con forza tale cambiamento. I concetti di individuo e di soggetto sono stati messi al centro di approfondite indagini filosofiche e linguistiche, con lo sviluppo di distinzioni e precisazioni, e con l’evidenziazione dei rapporti che ciascuno dei due ha con il concetto di persona e con quelli di società e cultura. Il tema del soggetto è stato perlopiù svolto all’interno del tema della coscienza; quello dell’individuo spesso è stato affrontato all’interno della riflessione sulla natura e sulla permanenza dell’identità.[1]
In campo psicoanalitico la nozione di soggetto ha avuto posizione vaga e ambigua; la sua indefinitezza è stata rilevata da numerosi autori, con varie posizioni e sottolineature (per es. Assoun, Green, Ogden, Cahn). Il soggetto in psicoanalisi appare come rappresentante ora del sé ora dell’Io; come soggetto della coscienza o dell’inconscio; come autore e/o depositario del senso di agency e di ownness, cioè di agente dell’azione e di appartenenza a se stesso, ed altro ancora, come la lunga e controversa storia del concetto di Sé mostra. Ritengo però che possa essere vantaggioso rivedere la posizione concettuale del soggetto in psicoanalisi in termini diversi, per quanto forse meno consueti e più complessi, che producono una visione alternativa anche del disagio nella/della civiltà nei rapporti con il soggetto.
In un lavoro precedente (Garella 2005) ho segnalato che accanto al decentramento dell’Io la psicoanalisi freudiana ha comportato anche quello del soggetto: “il Soggetto non è concepito solo come de-centrato, magari per essere ri-centrato altrove, per es. ai margini del campo psichico, ma è oggetto di un gioco di localizzazione che lo fa essere in posti diversi, in momenti diversi, con ruoli diversi e per fini diversi. […D]a un newtonianesimo psichico – l’Io non è al centro del mondo psichico ma nel mondo tripartito delle istanze è pur sempre quello che detiene per essenza la soggettività – si passa ad una caotica psichica, dove il Soggetto, o forse meglio la soggettività, appare come funzione all’interno del complesso gioco di scambi e conflitti fra le istanze e fra l’apparato psichico e il mondo. Ne consegue anche una incertezza ed un conflitto fra il tema dell’identità e quello dell’individualità, ambedue cooperanti alla costituzione della soggettività.” (ibid. p.174) Il soggetto – inteso appunto come il prodotto di un processo di soggettivazione altrove descritto nei termini di una funzione-soggetto (Garella 2012) – nasce dal rapporto fra le istanze dell’Io, del Super-io e dell’Ideale, e fra queste ultime e realtà, rapporto che sappiamo essere complementare e conflittuale: ne consegue che esso ad ogni momento della vita individuale attesta il compromesso esprimente lo stato di tale rapporto. Il soggetto cioè è l’oggetto dinamico psichico prodotto dalla funzione-soggetto ed esprime il bilancio, o il compromesso, che le varie istanze e la realtà giungono a stabilire perché la Kultur possa educare l’individuo a divenire persona e l’individuo possa assumere come oggetto di scambio fra realizzazione immediata del piacere e necessità di protezione e relazione. Il soggetto, quale parte dell’essere uomo è l’effetto di cultura che esprime la relazione fra motivi interni ed esterni allo psichico individuale e, in un certo senso, obbedisce ad un processo di costituzione simile a quello descritto in psicoanalisi per il sintomo. Come esistono sintomi variabili e stabili, monotoni e polimorfici, condizionati dai fattori più diversi, così accade per i soggetti. Questa concezione fornisce ulteriore sostegno alla convinzione psicoanalitica che l’identità, con le sue esigenze di durata, stabilità e consistenza, non possa rientrare fra i concetti psicoanalitici. Per sussistere, per il sintomo come per il triangolo del disagio, occorre un lavoro psichico continuo (a livello culturale e individuale) i cui margini non riempiono mai la totalità dell’esperienza: qualcosa rimane fuori sempre: l’inconscio e il corpo continuano a fare vita prima di tutto.
I tre vertici del disagio, per concludere, creano con le loro reciproche relazioni un ‘luogo’ per l’accadimento dell’uomo in quanto effetto di cultura, ma nello stesso tempo dissolvono l’idea metafisica del soggetto come sostanza o essenza, come razionalità e coscienza, per sostituirla con l’idea di un prodotto psichico la cui evenienza è retta da Ananke ma la cui forma è quella di Proteo. Non c’è modo per la Kultur di ‘civilizzare’ completamente l’individuo né per l’individuo di ottenere soddisfacimento del desiderio e realizzazione del piacere senza costituirsi in un soggetto che la persona possa utilizzare nella propria vita. Il disagio è dunque immanente al luogo dell’accadimento dell’uomo e solo la dinamica storica del rapporto fra Kultur e individuo può stabilire in ogni epoca che cosa è l’essere uomo e chi sia l’effetto di cultura che ogni epoca ri-conosce come proprio.
Bibliografia
Assoun, P-L. (1993). Freud e le scienze sociali. Roma, Borla, 1999.
Balibar E, Cassin B., de Libera A. (2004). Suject. In Cassin B. Vocabulaire européen des philosophies. Paris, Éditions du Seuil.
de Libera A. (2015). L’invention du sujet moderne. Vrin, Paris.
Benveniste E.(1966). Problemi di linguistica generale, Milano, Saggiatore, 1971.
Contardi R. (1999). Il punto oscuro. Note in margine a metapsicologia del disagio e disagio della metapsicologia. In Contardi R. & Gaburri E. Enigmi della cultura e disagio della civiltà. Torino Bollati Boringhieri.
Cortella L. (2020). La filosofia contemporanea. Bari-Roma, Editori Laterza.
Garella A. (2003). Per una ripresa del dibattito. In Donadio M. e Pozzi R. (a cura di) Psicoanalisi e teoria della cultura. Riflessioni su un classico: Il disagio della civiltà. Bari-Roma, La Biblioteca, p. 101-115.
——— (2005). Il triangolo impossibile: individuo, soggetto, civiltà. Psiche vol. XIII n.1 p. 173-188.
——— (2012). La questione della terza topica e la posizione del soggetto in psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi v. 58 n.4 843-863.
Simondon G. (1989). L’individuazione psichica e collettiva. Roma, DeriveApprodi, 2001.
Zaltzman N. (1998). De la guérison psychanalytique. Paris, Presses Universitaires de France.
Nota
[1] Cf. per es. Simondon 1989; Balibar, Cassin, de Libera 2004; de Libera 2015; Benveniste 1966.