di Roberta Iansiti
La “Belle époque” è un film magnetico ed emotivamente stimolante, in cui l’intelligente trama narrativa fa da sfondo al tentativo – riuscito grazie alla rara sensibilità di un certo cinema francese – di scandagliare i più intimi sentimenti dei personaggi, ma con lo sguardo ammiccante di chi riesce a farlo con (apparente) leggerezza. La trama è semplice, ma di per sé eloquente: Victor (uno straordinario Daniel Auteuil), fumettista in crisi (anche coniugale), trascurato e privo di stimoli, è un uomo che vive nel passato, che rifiuta la tecnologia che scandisce ogni momento del mondo moderno; come se avesse fermato il tempo, sembra essere rimasto ancorato ad un’epoca idealizzata, incapace di adattarsi alla complessità, alle sfaccettature e alle pieghe della vita contemporanea, di ritrovare le coordinate (ideali e materiali) che un tempo gli sembravano sicure (“c’erano i ricchi, i poveri, la destra, la sinistra, difendevamo gli immigrati senza preoccuparci dell’economia…la gente si parlava a tavola, senza guardare i telefoni”); Marianne (Fanny Ardant), sintonizzata sui moderni registri comunicativi, è tutta protesa verso il futuro, che vive in una ossessiva dimensione tecnologica, che riempie ogni momento ed ogni aspetto di sé; finisce addirittura per elaborare, con l’aiuto del figlio (autore di serie animate su piattaforme digitali), un programma basato su un algoritmo per proseguire on line la propria attività di psicoanalista! Due persone, in realtà, in fuga da se stesse. Incapaci di vivere il presente, e rivolte chi al passato, chi al futuro. La scintilla dell’azione è data dal figlio della coppia, che mostra uno ‘spiccato legame edipico’ con la madre
– le foto che ne arredano l’appartamento, noterà con ironia Victor, fanno pensare ad una ‘mostra sul complesso di Edipo’ -, ma è anche animato dal desiderio di poter ‘lavorare’ con il padre, coinvolgendolo in quella che è una evoluzione del lavoro di immagini cui Victor si dedicava con le matite. È lui a consegnare al padre un regalo: la partecipazione a “voyageurs du temps”, la possibilità di rivivere la ricostruzione storica e la messa in scena di un ‘tempo’, quello scelto dal ‘cliente’. In realtà, il regalo proviene da Antoine, l’ideatore di “voyageurs du temps”, un uomo ossessivo che vive unicamente all’interno delle finzioni sceniche che dirige in maniera maniacale; egli ha un ‘debito’ di riconoscenza (e forse anche di identificazione) nei confronti di Victor, poiché, quando era adolescente, amico del figlio, gli ha ‘salvato la vita’, regalandogli un libro (Martin Eden), e indicandogli una ‘strada’ (“sii curioso, sviluppa la tua immaginazione”), che lui, evidentemente, percorrerà. È così che Victor, lasciato dalla moglie, sceglie di accettare il regalo ricevuto con scetticismo. Ma, a differenza di chi sceglie di rivivere l’epoca nazista, o l’epoca di Hemingway, Victor sceglie di tornare a Lione, il 16 maggio del 1974: il giorno in cui ha conosciuto Marianne. Quale occasione migliore per un ritorno al passato, per rivivere il giorno più bello della propria vita,
immergendosi (anche) fisicamente (e non più solo con il ricordo) nella propria “Belle époque”? “Belle époque” che non è solo il bistrot dove Victor ha conosciuto Marianne, ma evoca anche quel periodo storico caratterizzato da euforia e frivolezza, e perciò vissuto con un sentimento nostalgico quando l’epoca della prosperità e dello sviluppo vennero travolte dai lampi dei cannoni della prima guerra mondiale. Ed è proprio la nostalgia le fil rouge del film. Nostalgia vissuta non come vezzo o come ‘industria’, ma veicolata su un registro delicato, mai forzato o sbandierato. Nel film il richiamo nostalgico non appare mai fine a se stesso, ma viene utilizzato come strumento di rievocazione identitaria, serbatoio narcisistico, che consente ai personaggi di costruire una dimensione nuova, vitale, che si collochi tra passato e futuro.
Non è, in fondo, lo strumento della psicoanalisi? La rievocazione del passato, dei vissuti, come ‘esperienza’ (nel senso tedesco del termine erinnern, composto dal prefisso – er, che esprime il compimento positivo di un processo, e dalla radice del sostantivo das Innere, l’interiorità, l’animo, ad indicare che il processo del ricordare riguarda tutto ciò che venga interiorizzato) di rielaborazione e di ri-costruzione identitaria. E così, stimolato dal ‘ritorno al passato’, Victor, lasciato dalla moglie e senza lavoro, riscopre se stesso e la propria vitalità nel rapporto con Margot, che, nella ricostruzione scenica, interpreta Marianne da giovane. Ed è qui che la storia di Victor e Marianne si intreccia con quella di Margot ed Antoine, il ‘regista’ di “viaggiatori del tempo”. Antoine è un uomo affettivamente insoddisfatto, capace di emozionarsi solo come spettatore delle emozioni altrui (come quando assiste alla scena di un uomo che, ogni sera, incontra il padre morto, ‘rivivendo’ la sera prima dell’inattesa perdita), in cui l’incapacità di una relazione ‘reale’ risale ad un’antica mancanza, ad una ‘scintilla’ mai trasmessa e che, perciò, non può vivere nel presente, nella relazione con Margot. Ma lo sguardo vigile di Antoine dalla cabina di regia è anche l’alter ego del regista Nicolas Bedos (nella vita compagno dell’attrice che interpreta Margot) evocativo dello ‘specchio’ di Lacan (1949), in cui l’immagine è sempre un nostro doppio. Ed è Margot, che nella vita di Victor sembra quasi assumere il ruolo di deus ex machina, di elemento risolutore della ‘tragedia’ interiore, a rivelare un’ulteriore cifra narrativa, quando, rivolgendosi per l’ultima volta a Victor, ammonisce: “Non possiamo riscrivere le persone come vorremmo che rimanessero per sempre, non possiamo dirigere tutto (…) altrimenti viviamo solo di inizi, ci perdiamo la vita vera”. Parole che Antoine le suggerisce tramite l’auricolare, nella mise en scène organizzata per dissolvere le illusioni di Victor, travolto dalla forza vorticosa della ‘nostalgia’; ma che Margot vivifica, facendole proprie con una ‘interpretazione’ commossa, rivolgendole in realtà all’uomo incapace di amarla. Ed in questo gioco di ‘specchi’ tra realtà e finzione, tra passato e presente, le storie dei protagonisti si intrecciano, si sovrappongono e si deformano in una mise en scène in cui i contorni dei personaggi si
confondono: e nel momento in cui un personaggio guarda l’altro, lo interpreta, si identifica, attraverso questo Altro si trasforma. “Ogni amore rende felice, persino quello infelice”, scrive Lou Von Salomé (1900), sottolineando l’enorme potenzialità vitale che è alla base di ogni relazione d’amore (e di ogni creazione). È così che l’enorme potenzialità vitale di Victor ritrova un canale dal quale sgorgare, che gli consente di riprendere in mano le ‘redini’ della propria esistenza; e di essere ri-guardato con occhi nuovi, ma antichi, da Marianne, che, in un momento di sincerità, ammette che la causa di tutto è la rabbia verso se stessa, proiettata su Victor. “L’obiettivo non è semplificare le cose”, dice Marianne, “ma accettarne la complessità”. È così che entrambi, originariamente chiusi nella propria crisi identitaria, incapaci di fornire quell’apporto narcisistico necessario ad ogni relazione di coppia, si sforzano di ‘accettare la complessità’, facendo i conti con le difficoltà che si insinuano in ogni relazione con l’Altro, ma anche con le insidie legate al ‘passare del tempo’, che richiede una riorganizzazione identitaria personale e coniugale. “Tutte le piccole cose diventano enormi quando ci si conosce da quarant’anni”, avverte Marianne, quando, recandosi personalmente nella ricostruzione scenica, rivive anch’ella la belle époque di Victor; al quale rammenta altre belle époque della loro storia d’amore, quasi per dissolvere l’incantesimo di una idealizzazione assoluta. E così, con una inquadratura delle scarpe molto suggestiva, che rievoca l’attenzione di Truffaut per i dettagli femminili, sotto gli occhi (celati da un vetro specchio) del regista e del figlio (che sa un po’ di ‘buco della serratura’), che il passato ed il futuro, dimensioni metaforiche utilizzate da entrambi, pur in modo dicotomico, per fuggire dall’insoddisfazione del presente e dall’incapacità di confrontarsi con esso, provano ad incontrarsi; in una dimensione in cui gioia e dolore, felicità ed afflizione diventano, consapevolmente, la cifra irriducibile della vita, e quindi di una relazione d’amore reale. “Hai richiesto tu una grande storia d’amore”, ricorda Margot a Victor; che replica: “ma non il dolore che porta con sé”. La chiosa non può non essere affidata a Lou Von Salomè (1900): “in tutte le esperienze più intense e produttive della nostra vita, felicità e tormento sono la stessa cosa: l’uomo creativo”.