La cancellazione del nemico e della storia.
il Manifesto 24/6/2023
di Sarantis Thanopulos
La scrittrice statunitense Elisabeth Gilbert ha sospeso la pubblicazione del suo romanzo “La foresta di neve” in seguito a una valanga di reazioni da parte di lettori ucraini che esprimevano “rabbia, delusione e dolore”. Come ha spiegato su Instagram, non voleva aggiungere altro danno a persone già estremamente ferite.
Il romanzo narra la storia vera di una famiglia di religiosi russi fondamentalisti che per sottrarsi al regime staliniano si sono ritirati per mezzo secolo in una remota parte della Siberia. Nulla che possa essere considerato offensivo per i sentimenti del popolo ucraino. La decisione di Gilbert testimonia da una parte un senso di colpa e dall’altra un’insidiosa tendenza degli occidentali a identificarsi non solo con le sofferenze del popolo ucraino e con il suo diritto di difendersi da un invasore, ma anche con la pretesa, che compare in tutte e guerre diventante combattimenti feroci e “all’ultimo sangue”, che il nemico sia cancellato dalla faccia della terra, dalla civiltà e dalla storia.
Gilbert non ha motivi per sentirsi colpevole del suo libro: esso descrive un’opposizione radicale all’assolutismo staliniano di cui è erede Putin. L’identificazione di tutto il popolo russo e della cultura russa con Putin, e di ciò che le persone sono per noi in tempi di pace con ciò che possono diventare in tempi di guerra, è opera dei nazionalisti ucraini, ispiratori della campagna propagandistica del loro paese. Questa identificazione dell’altro con cui siamo in conflitto con il Male, è comprensibile (accade spesso, se non sempre, in simili circostanze), ma non è giustificabile.
Il senso di colpa dell’Occidente, di cui Gilbert si fa inconsapevolmente portavoce ha a che fare con il fatto che la civiltà democratica è stata costruita con due processi antitetici (di cui rappresenta la sintesi, la mediazione e il compromesso): l’emancipazione culturale, politica e economica delle masse dei diseredati e l’accumulazione di ricchezza ottenuta mediante lo schiavismo, lo sfruttamento dei lavoratori e il colonialismo. Inclusione e esclusione, parità e diseguaglianza, accoglienza e razzismo convivono in un equilibrio instabile, fonte di un senso di precarietà permanente.
Il senso di colpa per avere fondato il proprio benessere sul malessere degli altri è giustificato, ma esso non è di per sé in grado di produrre alcuna trasformazione dello stato delle cose esistente, né riparare i torti e i gravissimi danni fatti. Il senso di colpa nei confronti di ciò che è accaduto nel passato può funzionare come auto-assoluzione: la pena diventa espiazione, il prezzo che si paga per estinguere il debito. E se il debito non si estingue, si può sempre vivere nella perpetua pena (“mea culpa, mea culpa”) che ci consente di restare egoisti nel nostro agire e di sguazzare nella doppiezza del vivere (uno dei nostri tratti distintivi).
Cancellare le colpe del passato non è possibile, voler riscrivere la storia (l’albero sul
quale tutti, colpevoli e innocenti, siamo seduti) è privo di senso. L’aspirazione a farlo, esprime, in realtà, lo spostamento della nostra prospettiva: il passaggio dal desiderio di prendere cura dei danni di oggi, per costruire una società giusta per il domani, al bisogno di una redenzione spirituale, morale che inventa un futuro di felicità e conserva i disastri del presente.
Il senso di colpa è utile se ci spinge a impegnarci in un processo di riparazione dei danni che si oppone alla loro reiterazione. Il suo significato positivo sta nel risveglio del senso di responsabilità. Chi sostiene senza ambiguità il popolo ucraino, dovrebbe, perché non è direttamente coinvolto nel conflitto e nell’odio, preservare dentro di sé la speranza che la guerra non distrugga in noi i legami di amicizia che sempre ci legano al nemico. Perché la guerra non sconfigga la pace e l’odio non riscriva la storia (la madre dell’inimicizia e della fraternità) soffocando il nostro futuro.