LONTANI DALLA GUERRA O ANCORA IN GUERRA?
Dall’incontro coi bambini in fuga alla complessità delle relazioni tra profughi e contesto di accoglienza: l’ascolto psicoanalitico sul confine della pensabilità e del dolore.
Virginia de Micco
Alexandra perché piangi?, cosa è successo? Alexandra indica il quaderno di Bruno, il suo vicino, si lamenta di qualcosa che il bambino ha disegnato. Cosa c’è in quel disegno che la fa piangere? Anastasia, la più grande del gruppo, si avvicina, protettiva, le parla in ucraino e cerca di capire, Rossella, la tutor del ‘laboratorio ludico-didattico’ [1]( ma che orrore il burocratese! come deforma con la sua apparente correttezza e inappuntabilità questo tentativo malcerto di imparare a stare insieme, questa scommessa sul cercare di capire cosa ci facciamo qui, in questo luogo, in questo tempo, in cui una imprevista accelerazione della storia ha fatto incrociare percorsi destinati altrimenti a non incontrarsi mai), accorre anche lei, vorrebbe cercare di consolarla, le fa qualche carezza leggera sul viso cercando di asciugarle un po’ le lacrime. Anastasia traduce in inglese per Rossella le parole che la bambina sussurra: Bruno sta ‘rovinando’ il quaderno.
Seduta dietro di loro, in una dimensione di ascolto/osservazione partecipe, avevo già notato che Alexandra stava trascrivendo sul suo quaderno molto diligentemente le formule di saluto in italiano riportate sulla bella lavagna luminosa del centro servizi per migranti con cui collaboro da anni, mentre Bruno, più piccolo ed evidentemente italiano perché capisce le richieste della tutor pur restando sempre silenzioso, le ignora e si dedica al disegno spontaneo.
C’era qualcosa che la ‘spaventava’ nel disegno del suo vicino? Bruno, a occhio direi che avrà 4 o 5 anni, disegna una forma massiccia, senza contorni delimitati, con ampi tratti del pennarello, ma di un bel giallo vivace e poi al centro con la penna due occhi e una bocca sorridente: l’irruzione di un mostro gentile mi viene da pensare..
Forse Bruno ha preso il quaderno di Alexandra e glielo ha ‘scarabocchiato’? potrebbe essere questo il motivo delle lacrime della bambina? si chiedono Rossella e Anastasia, ma no quello era il quaderno che Bruno aveva fin dall’inizio. Alexandra mostra il suo quaderno tutto ordinato mentre Bruno continua a disegnare in maniera un po’ disordinata e questo sembra infastidire ancora di più la bambina: la fa stare male vedere Bruno che disegna? vorrebbe che anche lui facesse il compito assegnato mi domando?
Mi torna in mente qualcosa che mi hanno raccontato altri operatori: la domenica mattina da anni presso la sede di un istituto religioso si tengono corsi scolastici riconosciuti dalle istituzioni ucraine che consentono ai figli dei residenti in Italia di conseguire anche i diplomi del paese di origine, nelle ultime domeniche, dopo lo scoppio del conflitto e l’arrivo dei primi profughi, alcuni genitori di bambini italiani che frequentano l’oratorio hanno insistito perché i bambini giocassero insieme, perché non pensassero solo a studiare ma si distraessero un po’ , sembrava che guardassero i nostri che correvano con certe faccine..dicevano. Poi Padre Igor, il prete ucraino che da anni cura questa collaborazione, è stato invitato a concelebrare la messa ma ha fatto un comizio più che un’omelia, ci aspettavamo un discorso di pace non di guerra, commentavano mentre andavano via piuttosto contrariati.
Non si può perdere tempo a giocare se si è in guerra mi viene da pensare. Poi si sa gli italiani pensano sempre che bastino due calci ad un pallone per stare bene, e d’altra parte gli slavi sono sempre un po’ guerrafondai si sa.
Rischi di fraintendimento culturale immediatamente in agguato? O proiezioni incrociate subito all’opera?
Certo sembra che siano più le menti di coloro che accolgono ad aver bisogno di allontanare, forse meglio di esorcizzare, le angosce di distruzione e di morte che questi bambini così seri e concentrati sembrano rimandarci, forse ancor più che se si mostrassero tristi e bisognosi, o se si mostrassero più evidentemente ‘traumatizzati’. In quel caso forse paradossalmente ci si sentirebbe meno impotenti, meno afflitti da violente angosce di colpa, soprattutto più capaci di mettere in gioco parti adulte ‘efficaci’, capaci di prestare soccorso nel bisogno, di compiere quell’azione specifica che risolleva dalla condizione di Hilflosigkeit, quella sensazione di inermità e di disaiuto che immediatamente ri-emerge.
Si ricorderà come l’esperienza migratoria è stata spesso assimilata ad una esperienza di ‘rinascita’ (L. e R. Grinberg), per parte mia ho sottolineato spesso quanto questo corrisponda anche al riaffacciarsi di intensi vissuti di impotenza e di abbandono, quasi un rivivere la condizione infantile appunto, la dipendenza da un caregiver, l’influenza determinante di un ambiente facilitante che accolga, lo spaesamento di fronte ad una lingua sconosciuta ( l’essere in-fans appunto) in cui cercare di ri-simbolizzare le proprie esperienze primarie. Situazione in cui dunque è paradossalmente fondamentale la tenuta della mente accogliente : non è un caso che quanto più le società di arrivo siano in crisi e le identità degli autoctoni fragili tanto più aumentino i moti di rifiuto e di rigetto verso i nuovi arrivati.§
Certo la reazione collettiva alla tragedia che si sta consumando nel territorio ucraino sembra situarsi agli antipodi: una disponibilità immediata all’accoglienza a tutti livelli, anche da parte di chi ( stati, gruppi, singoli individui ) aveva manifestato reazioni diametralmente opposte di fronte ad altre tragedie simili. Questo vero e proprio ‘rovesciamento’ non può non interrogarci come analisti, visto che tra l’altro questo singolare ‘oggetto’ relazionale e psichico, il ‘rovesciamento’ appunto, è stato recentemente scelto come tema principale dell’ultimo congresso della SPI bambini/adolescenti.
Lavorare sulle ‘soglie’…
E allora di fronte a quanti e quali rovesciamenti ci troviamo appena ci affacciamo su questo territorio psicoantropologico sconvolto da una invasione traumatica appunto, territorio talmente vicino da diventare il nostro, rispetto al quale non possiamo più fingerci nessuna ‘distanza di sicurezza’: la minaccia di una precarietà insostenibile ha invaso innanzi tutto le menti accoglienti che paradossalmente si ritrovano integralmente rovesciata addosso quella inermità che speravano di curare , e confinare, nell’altro: Voi che non conoscete la guerra ne avete ancora più paura…
Certo di fronte a questi bambini seri e attenti come è possibile non pensare al “poppante saggio” di ferencziana memoria, sembrano assolutamente concentrati nel cercare di trattenere una qualche forma di ‘continuità’ psichica di fronte alla violenta frattura di cui tutti gli adulti coinvolti sembrano in una certa misura ‘portatori’ e, paradossalmente, sembrano volti a rassicurare di volta in volta le ‘menti adulte’ coinvolte, sia quelle dei genitori e dei familiari, loro per primi scossi dalle lacerazioni dei legami coniugali e generazionali imposti dalla condizione di guerra, ma anche quelle degli adulti del territorio di accoglienza, la cui angoscia e il senso di inadeguatezza sono palpabili.
Di fronte a questa congiuntura storica tutte le agenzie sociali, umanitarie, politiche hanno immediatamente sentito come una priorità massima quella di mettere ‘in salvo’ i bambini, di esercitare cioè una forma di protezione sì verso i più ‘inermi’ e ‘innocenti’ ,ma che rappresenta anche una protezione della stessa specie umana, in un certo senso, nonché una protezione della sopravvivenza di un gruppo socioculturale. Tra l’altro in questa particolare situazione in cui viene evocato il rischio di una guerra totale in un mondo dotato di armi potenzialmente distruttive dell’intero habitat umano, mondo per di più così evidentemente interconnesso, l’interesse dell’umano in quanto ‘specie’ si intreccia e confligge con quello dell’umano in quanto specifico gruppo con una memoria storica e culturale, presentando dilemmi etici e complessità politiche rispetto alle quali sia le menti individuali che i contesti socioculturali appaiono sostanzialmente impreparati e smarriti.
Ma forse, ed è questo il rovesciamento che l’analista in ascolto può cogliere in questo delicato ‘lavoro sulla soglia’ non siamo noi adulti che stiamo cercando di ‘salvare’ questi bambini ma, al contrario, stiamo chiedendo loro di ‘salvarci’, testimoniando volta a volta col loro ‘sorriso’ o col loro ‘impegno’ di riuscire a sopravvivere alla distruttività dell’umano, che resta sempre in agguato nelle pieghe della più ordinaria quotidianità.
Avevo già segnalato in altri contesti quanto spesso accada che i cosiddetti MSNA ( minori stranieri non accompagnati) accolti nelle strutture dell’accoglienza si trovino all’incrocio tra aspettative conflittuali e divergenti del loro gruppo familiare rimasto in patria, da una parte, e degli operatori del contesto di adozione dall’altra. Condizione che sembra ripresentarsi e raddoppiarsi per i profughi in fuga dalla guerra, sebbene per molti versi in questa particolare crisi umanitaria gli itinerari dei ‘migranti forzati’ appaiano in netto contrasto con quelli con cui ci siamo confrontati fino ad ora.
In particolare il desiderio più diffuso è quello di poter rapidamente rientrare nel proprio paese, dal quale non solo non era stato minimamente elaborato ma tantomeno desiderato alcun tipo di distacco, anzi tutte le attività o le competenze che attestano una qualche forma di iniziale radicamento, o di maggiore ‘confidenza’ col territorio di accoglienza sono vissute con una profonda ambivalenza, dal momento che gettano in un immediato conflitto di lealtà soprattutto con i propri diretti familiari rimasti sul fronte di guerra. Le angosce di colpa dei ‘sopravvissuti’ sono sempre molto intense, anzi in un certo senso non c’è nulla di più ‘imperdonabile’ che sentirsi al caldo e al sicuro mentre l’angoscia e l’incertezza circonda altri legami ed affetti: ecco perché non ci si sente ‘salvati’ nel rifugio temporaneo che ha accolto, perché questo rifugio diventi davvero un luogo psichico e relazionale da abitare–un ‘rifugio vivente’ come lo ha recentemente chiamato Anna Ferruta- occorrerà un delicato e paziente lavoro capace di tessere una trama sottile tra spazi per nuovi, seppure tenui e magari fugaci, investimenti vitali e il mantenimento dei legami con gli oggetti minacciati dalla dissoluzione, mantenimento ancora più necessario, e addirittura indispensabile, quanto più questi oggetti originari, ivi compreso il proprio paese o la propria appartenenza culturale, vengono avvertiti a rischio di dissoluzione.
In questo complesso e delicato lavoro il ruolo dei contesti di accoglienza, delle ‘menti accoglienti’, è cruciale, ma niente affatto semplice, e proprio qui si ritaglia uno spazio fondamentale per le competenze specificamente psicoanalitiche nella costruzione attiva di quelle ‘soglie’ psichiche e relazionali che cercano di difendere e di espandere spazi di pensabilità, di dolorosa pensabilità, di fronte ad esperienze storiche individuali e collettive che invece tendono a cancellarli, traducendosi spesso in ininterrotti attacchi al pensiero: del resto “laddove il pensiero si arena, occorre insistere per pensare”, come ci ricorda Hannah Arendt.
Lontani dalla guerra o ancora in guerra?
Ma torniamo un attimo alla nostra Alexandra alla quale il disegno libero e spontaneo di Bruno sta ‘rovinando’ l’esecuzione del compito, proprio mentre il bambino cerca di dare rappresentazione a qualcosa che sembra aver fatto ‘irruzione’ nel suo spazio consueto. Verrò a sapere che i due bambini sono venuti insieme al laboratorio perché Alexandra è ospitata presso la famiglia di Bruno, per la quale la nonna della bambina lavora. In questo singolare gioco di specchi paradossalmente è Bruno che può esprimere l’elemento ‘traumatico’ che la presenza di Alexandra in un certo senso porta nella sua vita , qualcosa di inatteso e imprevisto che cerca di trovare una rappresentazione nel disegno del bambino come nella sua mente. E, d’altra parte, cosa avrà ‘avvertito’ Alexandra in quel disegno che la fa piangere, che forse ‘rovina’ il tentativo di continuare a fare diligentemente i compiti come se fosse ancora a casa, quel disegno fatto da un bambino ‘straniero’ che forse rimanda un’immagine insostenibile di sé, di quello che si è diventati all’improvviso. Bruno, del resto, può permettersi di esprimere lo smarrimento che sta provando, mentre Alexandra e gli altri ‘bambini in fuga’ sembrano ancora ‘in guerra’, piuttosto che ‘lontani dalla guerra’, sia per la vicinanza costante a padri e fratelli rimasti a combattere o comunque in situazioni di pericolo, sia per la necessità di tenere vivo il motivo della fuga piuttosto che allontanarlo. Anche in questo la situazione dei ‘rifugiati temporanei’ dall’Ucraina appare specifica: quante volte chi fugge da situazioni drammatiche di conflitto e distruzione chiede agli operatori dell’accoglienza di essere aiutato a dimenticare, in questo caso al contrario le ferite identitarie sono troppo vicine e brucianti e, anzi, sembra che debbano restare aperte per non entrare in un drammatico conflitto di lealtà col gruppo di appartenenza: fare il proprio dovere di scolaro allora allevia angosce di colpa e mantiene un senso di continuità con l’origine, mentre all’opposto l’esigenza del contesto di accoglienza sembra quella di essere rassicurato sulle sue potenzialità riparative, nel tentativo di ‘placare’ quell’elemento persecutorio e distruttivo di cui chi proviene da aree di guerra diviene quasi suo malgrado ‘portatore’.
E forse nella lettura in profondità delle interazioni tra questi bambini emerge qualcosa di negato e occultato nelle relazioni tra profughi e contesti di accoglienza: la dolorosa evidenza della ‘discontinuità’ psichica ed esistenziale che di fatto gli uni costituiscono per gli altri, pur nel tentativo di far prevalere le istanze di solidarietà e di immedesimazione. Così per Bruno, allora, Alexandra irrompe nella sua casa portando caos e ansia, per Alexandra, allo stesso tempo, Bruno diventa un vicino disturbante con la sua inopportuna vitalità.
Ma la drammatica e repentina esperienza di ‘discontinuità’ , la frattura nell’esperienza psichica individuale e collettiva di cui i profughi sono loro malgrado, come ho sottolineato più volte, portatori continuerà a manifestarsi in una molteplicità di modi, in particolare in quella sorta di rapidissima ‘contaminazione’ di modalità relazionali sempre più attraversate da scissioni e proiezioni distruttive che ‘impongono’ , anzi direi ‘esigono’ di schierarsi da una parte contro un’altra, e non mi riferisco ovviamente a scelte politiche inevitabili, quanto piuttosto ad una disposizione psichica intensamente polarizzata che in questo caso in particolare obbliga anche a cancellare una parte della propria storia e della propria memoria, a riformulare ‘immediatamente’ –senza alcuna possibilità di ‘mediazione’ psichica appunto- la propria stessa identità evacuando reciprocamente sul nemico , e nel nemico, tutte le spinte omicide e distruttive: così ‘PUTIN’ diventa un vero e proprio carrarmato fecale nel disegno di un bambino qui riportato, quintessenza della distruttività e dell’orrore.
Ho potuto osservare come nel breve volgere di qualche settimana bambini che passavano dal russo all’ucraino con assoluta disinvoltura hanno invece cominciato a ribadire con fermezza che “solo l’ucraino” è la loro lingua, mentre si sforzavano di costruire ponti patriottici col paese di accoglienza, con l’Italia e l’Europa, inciampando però continuamente nella difficoltà di familiarizzarsi col nuovo ‘alfabeto’ nonché con l’abitudine automatica di disegnare affiancate bandiera ucraina e russa e poi con l’imbarazzo di doversene giustificare.
Lo sgomento per questa dimensione autenticamente fratricida, in cui i legami familiari si sono ritrovati letteralmente spezzati e dispersi ai due lati del confine, nei primi giorni era continuamente presente nei discorsi e nelle preoccupazioni degli adulti appena arrivati e dei parenti da anni stabilizzatisi in Italia, poi è caduto rapidamente sotto un autentico interdetto di pensiero e di parola. Dallo sconcerto per non essere creduti da fratelli, genitori, intimi amici, ( ci bombardavano e mia zia diceva ma non è vero!) nel ritrovarsi di fronte a ‘verità’ inconciliabili, si è passati ad una coltre di silenzio impenetrabile, dolore e angosce intoccabili per il momento, che esigono estrema cautela anche da parte delle ‘menti accoglienti’, in particolare da chi svolge una professione d’aiuto che si ritrova a sperimentare in prima persona quanto sia scomodo, eppure necessario, restare su quel confine fragile tra riconoscimento del dolore, e talvolta del vero e proprio orrore, e necessità di resistere alla spinta a evacuare integralmente sul ‘nemico’ tutte le atrocità di cui l’umano è capace, tutto il disumano che l’umano stesso in realtà produce, quando abdica a quel faticoso, sofferto e incerto, ma indispensabile lavoro di pensiero che è il lavoro della cultura.
Con le parole di Freud “…la guerra distrugge le barriere che sussistono in tempo di pace” (1915a) e spezza i legami di solidarietà, ma distorce anche in tutta evidenza quella funzione psichica che costruisce legami, legami di pensiero e legami affettivi, quella indispensabile barriera di contatto che consente alla mente individuale -e agli assetti collettivi aggiungerei- di non funzionare in maniera evacuativa ma di avviare una trasformazione di quei frammenti distruttivi violentemente proiettati all’esterno, che altrimenti letteralmente intossicano gli ambienti psichici e contaminano quelli storici e sociali. L’ascolto esercitato dagli psicoanalisti in questi territori di frontiera, in queste congiunture storiche, in queste situazioni di crisi allora può mettere in gioco una specificità insostituibile, dal momento che è volto non solo ad un immediato empatizzare con la sofferenza ma anche a cercare di ripristinare le ‘soglie’, le barriere di contatto psichico, nel tentativo di dare una qualche forma di pensabilità al dolore di fronte al “ buco che si è aperto nel discorso delle origini”. Come si ricorderà questa espressione usata da Piera Aulagnier per descrivere ciò che è alla base della condizione psicotica, è stata poi ripresa da Fethi Benslama per indicare la ragione più profonda dei fenomeni di radicalizzazione religiosa e del fondamentalismo islamico. Formula che potremmo riprendere agevolmente di fronte ad una guerra che più ancora che per motivi di interesse ( in fondo ancora leggibili in un’ottica ‘razionale’) sembra affondare le sue ragioni in quegli autentici ‘buchi’ che la postmodernità liquida sembra scavare delle identità individuali e collettive. Un conflitto che sembra più che mai tributario di quella che già qualche anno fa Riolo indicava come eidolopoiesi : una ipertrofia di produzione di immagini che sostituisce la simbolopoiesi, rendendo dunque sempre più adesive e lacunose, al tempo stesso, le soggettività.
Fuggire, restare…
Ed è infatti proprio la rabbia, e la disperazione, di un foglio pieno di buchi, una tela su cui nessun disegno, nessun indizio di rappresentabilità, sarà possibile per un tempo probabilmente lungo, la traccia più intensa che mi resta dell’esperienza del laboratorio ‘ludico-didattico’ da cui siamo partiti. Letteralmente trafitto a ‘colpi di penna’ questo foglio di carta ‘salvato’ dalla cancellazione (stavo per buttarlo, mi sembrava solo stracciato..ma poi avevamo detto di conservare tutto quello che i bambini facevano.. sottolinea Rossella) rimane come una fragile intercapedine da custodire, innanzi tutto nella mente dell’analista, come impronta materiale di quei contenuti corrosivi che la mente di chi è direttamente coinvolto nell’esperienza di distruzione di ogni possibile contenitore psichico non può trattenere. Solo un lavoro di ‘riparazione’ di questi contenitori psichici , primi fra tutti le stesse menti materne, spesso ancora ammutolite e ‘congelate’ in questa fuga precipitosa, potrà permettere la costruzione di un rinnovato spazio transizionale, di autentici spazi di gioco, non imitativi o vagamente compiacenti. Si tratterà allora di fornire spesso le condizioni minime essenziali, quella funzione ‘ambiente’ tanto più preziosa quanto meno si fa avvertire, per ‘proteggere’ il tempo psichico necessario perché possano ripristinarsi queste vitali frontiere psichiche tra spazi e funzioni differenti.
In particolare il modo in cui la violenza degli elementi traumatici in gioco potrà essere in qualche modo contenuta delinea un’area incerta e dagli esiti imprevedibili, se tali elementi si radicalizzeranno fomentando odi e rancori sempre più intrasformabili, fino a tradursi in autentici tratti identitari, potremmo trovarci di fronte al nascere di una ulteriore versione di quei contesti traumatici in cui si allevano soggettività e gruppi perennemente in guerra, oppure se prevarranno vissuti depressivi intrattabili di fronte alla prospettiva di un ritorno in patria sempre più lontano nel tempo e di una qualche forma di stabilizzazione nel paese di accoglienza: tutto ciò al momento resta largamente imprevedibile.
Fuggire dal proprio paese, come pure accogliere chi fugge, costituisce sempre un processo di cambiamento dagli esiti incerti, capace di generare potenti resistenze ma anche profonde trasformazioni, incontri e scontri tra individui e gruppi, tra storie, memorie ed esperienze talvolta violentemente divergenti, talvolta capaci invece di produrre “contaminazioni feconde” (L.Preta). Il contributo specifico del lavoro psicoanalitico in questo campo si configura allora innanzi tutto in una complessa capacità di ascolto sia dei ‘soggetti in transito’ , spesso costretti a ridefinire le proprie soggettività in maniere precarie e instabili, che delle ‘menti accoglienti’ , la cui capacità di contenimento e metabolizzazione di elementi sconosciuti e ‘stranieri’ è spesso messa a dura prova. Per svolgere efficacemente questa funzione di ascolto spesso è necessario costruire attivamente nuovi spazi di incontro, attraverso la presenza e la collaborazione di analisti con realtà del terzo settore o con le molteplici reti informali di aggregazione dal basso che consentono di ‘incontrare’, appunto, ciò che emerge in queste dimensioni territoriali. Ma gli strumenti da mettere in campo restano più che mai i nostri strumenti specifici: una rinnovata profondità di ascolto dell’estraneo, una grande tenuta di capacità negativa, una costante attitudine autoanalitica capace di mettere in gioco le nostre stesse aree straniere[2], forse per noi stessi aree non analizzate e per questo particolarmente inquietanti e faticose da contattare.
Un’attitudine a quella che vorrei indicare come “osservazione liberamente fluttuante” potrà consentire in questi contesti di coniugare la dimensione dell’osservazione partecipante di stampo antropologico con l’assetto psichico dell’analista in seduta, capace di far emergere quelle singolarità, quei tratti ‘marginali’, quelle lacune o quelle ‘incoerenze’ emotive che costituiscono il luogo specifico in cui inconscio ( per riprendere la dizione suggerita da Riolo) si rende avvertibile, a patto di saperlo riconoscere e seguirne le piste spesso inattese e che possono contraddire le nostre aspettative manifeste. La possibilità dell’analista di mantenere una posizione ‘terza’ in questi contesti potrà fornire anche un fondamentale supporto agli operatori dell’accoglienza o di altre realtà istituzionali ,consentendo loro di elaborare ansie, vissuti di colpa e di impotenza, come pure moti di rigetto e di insofferenza.
Soprattutto sembra indispensabile la capacità analitica di favorire il ripristino delle barriere di contatto nei funzionamenti psichici , di valorizzare quel lavoro sulle soglie di cui già altrove avevo sottolineato la centralità nel lavoro con migranti e rifugiati: si tratta di quegli scambi profondi ma fugaci che possono avvenire spesso solo sulle soglie delle stanze, nei corridoi o nelle sale d’aspetto, nei tragitti d’accompagnamento etc., spazi fisici dunque, non ancora simbolizzabili, che fungono da cornice ‘concreta’ per una funzione psichica non ancora attingibile pienamente, né tantomeno stabilmente interiorizzabile, spazi in cui si potrà effettuare giusto una ’toccata e fuga’ dei contenuti psichici più angosciosi e ‘intoccabili’, come del resto accade con quelle comunicazioni ‘esplosive’ che spesso i pazienti fanno sul finire della seduta o sulla soglia della stanza d’analisi appunto. Contenuti che forse non si potranno riprendere per un tempo molto lungo, che forse nel caso di migranti e rifugiati non si potranno riprendere mai, perché magari avranno già ricominciato il loro viaggio, ma che nondimeno la mente dell’analista custodisce come il passaggio di un prezioso testimone capace di sintonizzarne l’ascolto su risonanze impreviste.
Accettare di lavorare sulla ‘soglia’, del dolore, della distruttività, sulla soglia dell’abisso di nietzschiana memoria in definitiva, per strappare margini di sofferta pensabilità, significa anche mettere in conto preventivamente che saremo esposti ad una continua messa alla prova della nostra capacità di investimento su un oggetto così ‘sfuggente’, sradicato e sradicante, con cui sperimenteremo la frammentarietà e l’incertezza del legame, eppure dovremo cercare di tollerarne la fugacità: sapere che il legame con chi fugge potrà essere esposto alla precarietà non ne attenua il valore di scambio vitale, non ne diminuisce “la nostra alta considerazione” in quanto vero e proprio “bene della civiltà”, riecheggiando quanto scrive Freud nel saggio sulla caducità (1915b,p.176).
Relazioni spesso segnate dalla fugacità dunque, che però nella loro intensità dolorosa oppure nell’angoscia insondabile ci consegnano in pieno a quella psicoanalisi della domanda invocata da Fachinelli, psicoanalisi rigorosa per eccellenza…
Mi torna in mente allora la protagonista di Sussurri e Grida di Bergman, sconvolta da un dolore che trafigge la carne e ammutolisce la mente, un dolore senza nome appunto, che annota nel suo diario: ho dato un nome al mio dolore lo chiamerò cane.Ecco forse ho trovato, di fronte allo smarrimento senza fine di questi giorni, ho dato un nome al mio dolore: lo chiamerò domanda..
Rif. Bibliografici