Periferia/Periferie
Portare la psicoanalisi nelle periferie…
Virginia De Micco
Queste brevi note partono da una convinzione e da una sfida: la sfida è ovviamente quella di portare la psicoanalisi nelle periferie, la psicoanalisi intesa classicamente contemporaneamente come metodo terapeutico e come modello del funzionamento psichico centrato sull’inconscio. La convinzione è che lavorare psicoanaliticamente sia un lavorare continuamente sulle periferie, quindi che il luogo elettivo in cui la psicoanalisi mette alla prova il suo metodo e costituisce il suo sapere sia un luogo periferico, un margine da cui si conosce il centro esattamente in ciò che il centro ignora di sé stesso, dunque in questo senso una conoscenza autentica in senso analitico è sempre una conoscenza marginale, periferica, frutto di quel metodo psicoanalitico che consiste in un attivo de-centramento appunto, metodo psicoanalitico che, come ci ricorda Pontalis, incontra l’universale quasi per caso, ponendosi in quanto vi è di più particolare..
La nozione di periferia rimanda ad un contesto urbanistico che immediatamente evoca una dimensione sociale, o meglio ancora antropologica: la periferia è un modo di vivere, una modalità di strutturare le relazioni e le soggettività allora, un ambiente psico-culturale del tutto peculiare.
Innanzi tutto la periferia non è la provincia, portare la psicoanalisi in periferia non significa portarla in provincia, in un piccolo centro, che sempre come centro si percepisce sebbene magari alla periferia dell’impero come si usa dire: il piccolo centro non diventa che una versione ridotta del grande centro, cui aspira, da cui aspetta legittimazione e ‘garanzia’. Insomma spesso la provincia non innova in nulla la conoscenza prodotta dal ‘centro’, dal main stream, ma si limita a ripeterla su scala ridotta. Portare la psicoanalisi in provincia spesso si è tradotto più in un tentativo di espandere la sfera di influenza del centro cittadino attraverso élite professionali locali che nella trasformazione di quello stesso centro ad opera delle nuove frontiere.
Le province nell’Impero Romano, del resto, non a caso servivano ad amministrare il potere localmente, ovverosia ad assicurare che fosse conforme alle direttive centrali.
Invece la periferia , come luogo antropologico di costruzione del sapere analitico, sembra quasi porsi agli antipodi di tutto ciò: innanzi tutto il termine stesso reca una sostanziale ambiguità dal momento che è ciò che perimetra, delimita, il centro, è la sua circonferenza esterna, il suo confine insomma, ma dall’altro è anche ciò che lo sfrangia per così dire, è il suburbio, il periurbano emergente, l’hinterland, in una parola lo sconfinante.
Anche dal punto di vista urbanistico nulla è più diverso dalla provincia della periferia: la periferia è luogo caotico e disordinato, oscilla tra la baraccopoli e i quartieri-monstre dalle Vele a Bastogi, è ciò che si situa al di fuori, o meglio al di là, ma intendo letteralmente jenseits , dell’ordinamento riconosciuto, forse oserei dire del rappresentabile, o almeno in una dimensione che ci restituisce forme di rappresentazione ‘alternativa’ delle relazioni e delle soggettività: una dimensione psicoantropologica che si potrebbe per certi versi assimilare a quello che Fédida indica come ‘informe’.
Questo autore affida a quello che indica come “movimento dell’informe” la possibilità di costituire neoformazioni psichiche, nel senso che è solo dal movimento dell’informe che può nascere un autentico processo di rappresentabilità psichica, e antropologico-culturale aggiungerei, di aree prima non rappresentate né rappresentabili, da cui cioè possono nascere nuove forme del comprendere, anche del comprendere analitico.
E’ proprio in questi luoghi di instabilità e di intensa trasformazione delle dinamiche relazionali e psichiche che la psicoanalisi ha bisogno di avventurarsi per ritrovarsi allora, in quei luoghi marginali che ‘decidono’ di ciò che accadrà al centro… le evoluzioni storiche molto spesso si capiscono dalle periferie appunto non dal centro: carceri, luoghi di incontro con migranti, non-luoghi frequentati dalle adolescenze a rischio ma anche, last but not least, stanza d’analisi che è un altro cruciale luogo ‘periferico’ da cui poter intendere, ascoltare l’informe.
La stanza d’analisi diventa essa stessa una formidabile sonda per cogliere in profondità le trasformazioni del sociale se si apre a quella clinica di frontiera cui faceva riferimento Fausta Ferraro.
Portare la psicoanalisi in periferia passerà allora attraverso la attiva costruzione di spazi di incontro con queste realtà, spazi di incontro che possono costituirsi nelle maniere più varie: attraverso la presenza e la collaborazione di analisti con realtà del terzo settore ad esempio, con le molteplici forme di aggregazione dal basso, ma anche attraverso servizi di ascolto a bassa soglia che consentano di ‘incontrare’ appunto ciò che emerge in queste dimensioni territoriali. Gli stessi nascenti CCTP potrebbero costituire luoghi di irradiazione verso queste realtà periferiche.
Mi preme sottolineare che ciò che emerge, che si dà sotto la forma dell’emergenza, è sempre l’inconscio. Questa situazione è particolarmente evidente proprio nelle realtà migratorie in cui non a caso si parla da più di venti anni di ‘emergenze’: si tratta a tutti gli effetti di una cronicizzazione dell’emergenza, ovverosia di un fenomeno che è mantenuto attivamente in una forma emergenziale proprio perché non gli viene riconosciuto né assegnato un posto – un luogo né nelle menti né negli assetti sociali, più viene rigettato, proprio forcluso in un certo senso, più torna come autentico revenant nel reale.
L’ascolto analitico in tali situazioni confina (o sconfina) con uno sguardo antropologico, coglie ciò che si pone al suo stesso limite, alla sua periferia.
Del resto proprio l’antropologo Marc Augé ci ricorda come si possa continuare ad essere etnologi anche sul metrò, come si possa cioè mantenere il proprio assetto psichico e scientifico anche in terreni apparentemente distanti da quelli abituali. Nel suo caso anzi usare gli strumenti etnografici, nati per indagare luoghi esotici e sconosciuti, per osservare invece le forme dell’umano che popolano una realtà così vicina come il metrò, diventava una risorsa ulteriore, restituiva i funzionamenti profondi delle tribù nomadi della postmodernità, svelando l’ignoto nel quotidiano. Nel nostro caso potremmo immaginare di essere psicoanalisti in periferia? Aprirci all’ascolto trasformativo di questo ‘informe’ psichico e antropologico che lotta per trovare una forma? Senza scivolare verso un’attitudine pedagogica o ideologica, ma proprio utilizzando al massimo i nostri strumenti specifici: una rinnovata profondità di ascolto dell’estraneo, una grande tenuta di capacità negativa, una costante attitudine autoanalitica capace di mettere in gioco le nostre stesse aree periferiche, aree ripudiate e marginalizzate, forse per noi stessi aree non analizzate e per questo particolarmente inquietanti e faticose da contattare. E’ la percezione di questo ‘ignoto’ che incontriamo quando ci avventuriamo nelle periferie, e la sfida è proprio cercare di tradurlo, faticosamente appunto e parzialmente, in pensiero.