Il Manifesto, 24 settembre 2022
Quattro questioni post-elettorali di Sarantis Thanopulos
Domani si vota. I cittadini decideranno chi dovrà governare il paese in questo difficilissimo momento. Il nuovo governo dovrà affrontare in modo chiaro e non ambiguo quattro questioni che peseranno moltissimo dopo le elezioni e saranno dirimenti.
La prima questione è connessa con la condanna (a stragrande maggioranza: 433 voti contro 123), del regime “ibrido” di Orbàn da parte del parlamento europeo. Il conflitto tra democrazia e autoritarismo è stato dichiarato: quanto più la sua soluzione stagnerà, tanto più sarà deflagrante. La definizione del governo ungherese come “autocrazia elettorale” è significativa. Coglie in modo conciso la natura dei regimi che vedono nella maggioranza elettorale una delega di potere incontrollato. La maggioranza elettorale non coincide con la democrazia. Deve essere accordata con il rispetto della minoranza per almeno tre importanti ragioni: a) Ogni cittadino partecipa in diversi campi della sua esperienza a culture che non potrebbero mai diventare maggioritarie senza snaturarsi, perché costituiscono la polifonia dalla quale il rapporto politico maggioranza/minoranza nasce in forma dinamica, in continuo movimento, mai sclerotica e costrittiva; b) la “società civile”, senza la quale la democrazia è impensabile, è fondata sulla parità delle differenze e dei soggetti dialoganti e sulla libertà dello scambio, in modo avulso da dispositivi decisionali: non si vota sulle nostre preferenze sessuali, culturali e religiose; c) i beneficiari di una maggioranza che usano il potere ottenuto per perpetuarla e costruire un sistema autoreferenziale di consenso, indipendente dal libero confronto delle idee, assoggettano la cittadinanza a meccanismi di dipendenza psicologica e costruiscono una società di servi.
La seconda questione è l’attacco, malamente camuffato e decisamente temibile, contro il diritto della donna ad abortire. Questo diritto è espressione del diritto di scegliere la maternità, di non subirla. La possibilità di scelta non ha prodotto un aumento degli aborti, ma, come era prevedibile, una loro molto drastica diminuzione. La promessa elettorale alle donne di un “diritto a non abortire”, è una costruzione preoccupante sia per la manifesta assenza di cultura giuridica sia per la torsione logica di cui è il prodotto. La libertà “negativa” protegge il cittadino da interferenze esterne o da doveri a qui può legittimamente sottrarsi, ma in quale senso il diritto di abortire sarebbe un dovere o un’interferenza con la scelta di essere madri? Questa violenza dell’interpretazione difende, in realtà, il pensiero che la maternità non sia una scelta, ma un obbligo, che su questo piano la donna non abbia libertà di autodeterminazione.
La terza questione è il “job act”: ha nettamente favorito la già grave precarietà di lavoro dei giovani, il loro sfruttamento selvaggio e la mortificazione della loro preparazione scientifica e culturale e delle loro passioni. È necessario un nuovo contratto con le nuove generazioni che liberi il loro potenziale creativo dagli inganni e dalle false promesse (le buone intenzioni al servizio dell’indifferenza) e valorizzi il loro formidabile potenziale innovativo.
Last, but not least, la questione della sanità pubblica. La pandemia ha mostrato il suo dissesto provocato da anni di predazione dei beni comuni (chiamata privatizzazione) e di regionalizzazione/feudalizzazione dei servizi guidata, il più delle volte, dall’egoismo (chiamato autonomia). E ha creato una preoccupazione collettiva favorevole a un ritorno politico e culturale all’interesse generale. È ora di fermare le privatizzazioni, spostare l’attuale rapporto di forze tra governo e regioni a favore del primo (nell’ottica della priorità assoluta dei servizi pubblici e della parità dei cittadini nel campo della salute), retribuire in modo adeguato medici e infermieri che lavorano in prima linea. Se il “diritto alla salute” non è solo demagogia.