Su sensorialità e psicosi
Luigi Rinaldi
Sono contento di essermi fatto promotore della presentazione a Napoli di questo libro di Antonello Correale. E’ un libro che rappresenta, a mio parere, una felice sintesi di una prospettiva psicoanalitica e di un orientamento fenomenologico. Il viaggio nel pianeta psicosi di cui l’autore ci rende partecipi, nella prima parte del libro, viene descritto in maniera appassionata, chiara, perfino colloquiale, in modo da far avvertire al lettore l’esperienza viva dell’autore, quale tipo di sensibilità accompagna le sue riflessioni.
Mi aspetto molto da questo dibattito, che ritengo una naturale continuazione di quello avuto qualche anno fa con Antonello e Franco De Masi, in occasione della presentazione dell’ultimo libro di De Masi: Svelare l’enigma della psicosi. Fondamenti per una terapia analitica. Anche se il titolo era troppo ambizioso e l’enigma assolutamente non può definirsi sciolto, concordammo su alcuni fondamenti necessari per impostare bene la terapia psicoanalitica delle psicosi, ed aggiungemmo nuovi tasselli al dibattito avvenuto a Napoli nel 2016, in seguito alla pubblicazione di “Prospettive attuali nella psicoanalisi delle psicosi” curato da R. Lombardi, L. Rinaldi e S. Thanopulos di cui era appena uscita l’edizione inglese, nella collana di Routledge proposta dall’Associazione Psicoanalitica internazionale. Mi aspetto che anche dal dibattito di oggi vengano fuori dei punti che riescano a riempire alcune delle nostre tante lacune e perciò farci risultare meno enigmatica la psicosi.
Incomincio col dire che le aree del pianeta psicosi esplorate da A.C. sono vaste ed importanti: il corpo, la sensorialità e l’invadenza dell’altro sul soggetto. Dall’intreccio di queste tre aree, di questi tre grandi nuclei costitutivi dell’organizzazione psicotica, derivano quelle angoscie di inconsistenza dell’essere, di frammentazione, di estraneità del proprio corpo, il cui effetto globale è quell’insicurezza ontologica di cui parlò Laing (1955) nella sua opera più celebre.
Questa insicurezza ontologica, sostanziata dall’angoscia di disintegrazione, di non unità del corpo, porta il soggetto psicotico a quello stato di perplessità, che spesso lo caratterizza, lo porta a dover tutelare se stesso in una vita molto controllata ed evitante, spesso con tonalità ossessive di tipo difensivo. I suoi frequenti vissuti ipocondriaci che possono essere raffigurati con espressioni del tipo (“mi sento di legno, mi sento fatto di cera, sono tutto liquido…”) gli conferiscono la tipica chiusura autistica. Il suo vissuto ipocondriaco lo fa sentire diverso dagli altri, lo spinge ad invidiare il corpo degli altri, secondo lui o lei, non affetti dalle sue angosce, lo fa sentire sempre esposto agli sguardi di tutti, che sono da lui evitati perchè immaginati sempre pronti a farlo sentire in colpa, per le sue inadempienze rispetto alle attese dei genitori e della società. Da quì nasce il suo presunto bisogno di non avere bisogno di niente e di nessuno, il suo vivere il più solitariamente possibile.
Veniamo al secondo punto: la sensorialità, o meglio l’ipersensorializzazione di un dato percettivo che sarebbe, secondo Correale, uno dei fenomeni fondamentali e basici della psicosi schizofrenica. A questo fenomeno egli dà il nome di allucinatorio: un dato sensoriale vissuto come particolarmente intenso, soprattutto enigmatico perchè slegato da un contesto, una sorta di “figura” che ha perso il contatto con il suo “sfondo” di appartenenza. Il dato sensoriale appare così come qualcosa di inspiegabile come qualcosa “caduto dal cielo”, che rimanda ad un mondo altro, misterioso, inquietante, che richiede una spiegazione. Si tratterebbe di immagini sempre uguali, fisse, straordinariamente intense, illuminate da una luce forte, fissa, priva di ombre, che si presentano alla mente del soggetto in maniera intrusiva, bloccandone e parassitandone l’attenzione. La psicosi (schizofrenica) sarebbe caratterizzata proprio da questa condizione nella quale “l’immagine la fa da padrona” e il soggetto resta abbacinato da una sensorialità invadente, prigioniero di un mondo ipersensoriale, caratterizzato da staticità, rigidità e fissità. Questa è la tesi centrale dell’Autore. Il predominio dell’immagine sarebbe l’esito di un percorso che, a partire da una “crisi della presenza” nel senso di Ernesto De Martino, porta ad un vero e proprio “collasso della presenza”, a un radicale sperdimento che rende necessario il ricorso ad una ipersensorialità ideico/percettiva capace di riempire questo vuoto.
Detto in altri termini: quando interviene una crisi del rapporto con una figura di riferimento potente e protettiva, di cui il futuro psicotico ha bisogno, perchè con la sua sola presenza gli garantisce un esame di realtà accettabile e la partecipazione a un mondo reso familiare, il soggetto psicotico va incontro a spaventose angosce di sperdimento, il mondo diventa estraneo, bizzarro (da cui le angosce di depersonalizzazione). Deve ricorrere allora ad una sorta di invocazione di aspetti sensoriali che ridiano l’idea che comunque una qualche presenza esiste.
E’ in questo contesto che si può compiere quel percorso ad alta valenza psicopatologica che va dall’allucinatorio all’allucinazione e al delirio. Il soggetto, infatti, reagisce al “collasso della presenza” con un bisogno di presenza che esita (in un rimedio peggiore del male, sottolinea Correale,) in una “ipersensorializzazione confermativa”, cioè in una forma di investimento compensatorio sugli organi percettivi e prevalentemente il visivo, attivando l’emersione di immagini fisse in un funzionamento di tipo allucinatorio. Queste immagini fisse provengono dal deposito mnemonico di quello che Aulagnier ha chiamato processo originario, cioè da quella esperienza percettiva del contatto con gli oggetti primari, contrassegnata da una compenetrazione corporea che si verfica in un’epoca della vita nella quale manca un apparato linguistico capace di dare forma a questa esperienza.
Quando manca anche una funzione materna capace di contestualizzare e rappresentare metaforicamente l’esperienza, e fornire così uno scudo protettivo a quantità di eccitamento che facilmente possono risultare traumatiche per l’infans, si costituisce il presupposto di un processo che si muove lungo la direttrice “allucinatorio” – allucinazione – delirio. Al culmine di questo percorso la psicosi si può configurare come il “luogo di elezione della presenza dell’originario”: l”originario” si coglie nella psicosi quando l’incontro sensoriale con l’altro diventa, nell’esperienza psicotica, una collisione, un bombardamento, una perforazione. Esperienze che possono assumere la forma di immagini di lacerazione, violazione, stupro, ferite emorragiche. Nel registro pittografico del processo originario diventa prevalente, dice l’Aulagnier, il pittogramma del rigetto. E questo avviene agli inizi della vita, proprio quando l’infans ha bisogno di vivere uno stato di fusione con la madre, a cui è aggrappato, come la mano del rocciatore è aggrappata alla roccia che gli impedisce di precipitare nel vuoto, e per far sì che questo non accada la mano e lo sperone di roccia diventano una sola cosa.
A sostegno dell’ipersensorializzazione alla base del processo originario che renderebbe vulnerabili alla psicosi Antonello cita poi due elementi : 1) ricerche di neuroscienziati come Northoff che hanno descritto una iperattività della corteccia sensoriale, che il resto del cervello cercherebbe continuamente di elaborare e di chiarire; come se il cervello trattasse i dati che provengono dal suo interno – e quindi anche memorie, fantasie, flash percettivi – come se non sapesse bene che vengono dal suo interno e anzi, lentamente, si andasse convincendo che provengono dall’esterno; 2) una forte tendenza alla sensorializzazione del linguaggio…(vedi alcuni brevissimi flash clinici a pag.33)
Infine che fare quali gli usi clinici di queste ipotesi teoriche? ( vedi pag.74).
Una volta riassunto succintamente le ipotesi dell’Autore…qualche breve commento, innanzitutto per approfittare della presenza di Antonello le cui capacità di sintesi e ridurre il tutto all’essenziale mi hanno spinto recentemente a dirgli che lo consideravo il rasoio di Occam della psicoanalisi….
1) Innanzitutto toglierei il ? sul fatto che le allucinazioni possano essere la via regia al funzionamento psichico. Lo stesso Freud sedici anni dopo L’interpretazione dei sogni (Freud, 1899), nel Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno (Freud, 1915), continua a dichiarare identici sogno ed allucinazione, salvo qualche piccolo dettaglio. Per tale motivo ha sempre prestato maggiore attenzione alle analogie piuttosto che alle differenze fra i sogni e i fenomeni psicotici, a partire dal tema della continuità fra il materiale onirico e i contenuti psicotici e della loro alternanza.
Ricordo, per esempio, che nel caso del presidente Schreber, Freud (1910) nota che l’insorgenza del secondo episodio psicotico è preannunciata da un sogno in cui gli si affacciò la rappresentazione che sarebbe stato davvero bello “essere una donna che soggiace al coito”. Ed in seguito, a riprova che il paziente lotta con lo stesso materiale che entrerà nella psicosi, Schreber comunica, nel suo delirio, di essere stato trasformato in donna e di essere stato fecondato dai raggi divini. La spiegazione metapsicologica dell’analogia tra le allucinazioni oniriche e quelle della veglia dipende dal fatto che entrambe sono esperienze regressive, caratterizzate dalla prevalenza dei processi primari di pensiero, dalla mancanza della nozione di tempo, dall’assenza di contraddizione e dalla realizzazione allucinatoria del desiderio rimosso. Nel caso del sogno, la chiusura delle afferenze percettive e la preclusione delle efferenze motorie, consentono all’eccitamento del ricordo inconscio di trascinare il pensiero verbale preconscio, per via retrograda, fino al sistema percettivo, dando luogo alle allucinazioni oniriche. Nel caso delle allucinazioni non oniriche e del pensiero psicotico l’esperienza regressiva sarebbe dovuta ad un eccesso di eccitazione le cui relative rappresentazioni inconsce non riescono ad essere trattenute dall’irrompere sulla scena, a causa della debolezza, momentanea o cronica, delle strutture egoiche (labilità dei confini dell’Io).
Sulla falsariga delle produzioni oniriche Freud ha aperto così la strada all’interpretazione del delirio e delle produzioni psicotiche, ed ha spinto alla ricerca del senso e del significato di queste manifestazioni.
2) Sono anche d’accordo sulle potenzialità ostruttive e parassitizzanti l’attenzione dell’eccesso di sensorialità, sul suo ruolo nel determinare un “buco nero”nella rappresentazione affettiva ed intellettiva del proprio corpo e del rapporto con la realtà. Per cui mi sembra essenziale aiutare il paziente ad espandere la propria esperienza soggettiva rimasta coartata. L’approccio di Correale, che può sembrare ad alcuni un pò troppo fenomenologico, in realtà serve ad una messa a fuoco, ad un isolamento di alcune immagini centrali per poi allargarle, collocarle su uno sfondo più ampio e quindi mobilizzarle e infrangerne la fissità, per coglierne gli aspetti più nascosti e segreti. Questa modalità di approccio penso che possa essere vissuta dal paziente come la fine di un angoscioso isolamento e l’inizio di una utile condivisione.
3) La potenza delle immagini di cui tu parli io l’ho riscontrata in realtà in alcune immagini oniriche correlate a vissuti estremamente primitivi ed angoscianti di qualche mio analizzando, come in un caso: la scomparsa delle pareti e del venir meno del letto della camera d’albergo in cui si trovava, con la relativa scomparsa di se stesso e della figlia che stava nella stanza accanto, e poi la vista in un altro sogno di un corpo in necrosi, ed in un altro sogno la vivida sensazione di essere fatto di legno ecc.
Queste immagini sembravano rappresentare la drammaticità delle sue angosce – di frammentazione, annientamento, perdita dei confini dell’Io – elicitate dalle separazioni analitiche. La drammaticità era tale, perchè risvegliavano, après coup, le angosce più antiche sperimentate nella relazione primaria, quando era il corpo a parlare.
In uno di questi casi, da me pubblicato (Rinaldi 2016) argomentavo
rifacendomi all’Aulagnier (1975), che si era passato dalla potenzialità psicotica ad una fase di scompenso quando la realtà esterna aveva rinviato al soggetto l’immagine speculare del pittogramma del rigetto, quella rappresentazione pittografica che ha di se stesso, e che si riattualizza allorchè “essendosi rivelata impossibile la relazione con l’altro, ( la crisi della presenza di cui parla Antonello) l’Io ha solo il proprio corpo a consentirgli il segno “relazione” nei suoi alfabeti, segno indispensabile all’organizzazione delle sue costruzioni del primario e del secondario” (De Mijolla, 27).
L’intenso vissuto sensoriale e somatico presente nei sogni di Giacomo (il corpo in necrosi, la testa di legno, la formichina, l’improvvisa scomparsa propria e della figlia ecc) rimandava alle vicissitudini traumatiche della relazione primaria, ad un corpo che, non riconosciuto dal dialogo con la madre e non accolto dalla rêverie materna, tutt’ora sembrava non appartenergli, non riconoscerne i segnali: vedi il suo muoversi un pò goffo e i disturbi del comportamento alimentare. E dicevo che queste immagini oniriche, più che essere produzioni fantasmatiche, sembrano molto vicine a quelle rappresentazioni di cose corporee (pittogrammi) da cui ha inizio la metabolizzazione psichica degli stati di bisogno del corpo. E concludevo con l’ipotesi che sognare cose corporee e fornirne un quadro all’analista esprimesse “la speranza d’incontrare il processo psichico in cui esso si trova immobilizzato, siderato ed apparentemente fuori portata” (De Mijolla, 1998,121; cfr. Moscato, 2013). Viene offerta, in questo modo, all’analista, una possibilità di figurazione e conseguente costruzione simbolica che da bambino era mancata da parte della rêverie materna.
Se si riesce a rendere pensabili e condivisibili queste immagini di cose corporee si può riuscire a disancorarle dalla memoria somatica, ed inserirle in un processo di fantasmatizzazione che aiuta il paziente a passare da un funzionamento tirannicamente autosensoriale, che necessita di eccitazioni e continue stimolazioni, alla possibilità di un investimento libidico-emotivo del Sé e del mondo.
4)Ultimo punto. Mi sembra necessario soffermarsi un pò anche sugli altri due piani che secondo Aulagnier costituiscono l’edificio psicotico: il processo primario e quello secondario. Si passa cioè dalla potenzialità psicotica innestata dalla violenza dell’interpretazione materna, fornita al bambino su quello che gli accade, alla psicosi conclamata, allorchè si verificano queste tre condizioni: 1) l’originario e i suoi pittogrammi incontrano una realtà esterna che non si presta a riflettere uno stato di fusione, di unione totalizzante; ne risulta la preminenza del pittogramma del rigetto e del desiderio di autoannientamento ad esso coestensivo; questo primo tempo, questa prima esperienza svolgono un ruolo induttore se i successivi incontri con la realtà esterna non riescono a curare questa prima ferita; 2) “i processi primari di pensiero, a loro volta, hanno invano cercato nel fuori-sé dei segni che consentissero di trovare nel luogo dell’Altro la causa di piacere collegabile al suo desiderio e, comunque, i segni che smentissero i suoi fantasmi di rigetto, e l’aiutassero a riconoscere che il mondo e il corpo dell’altro sono anche luoghi dove il piacere è possibile, dove può realizzarsi il desiderio”; 3) “l’Io incontra nello spazio dove deve e sta per avvenire, negli enunciati che devono e vanno a costituirlo, l’ordine di dover essere, mentre ogni volta che diviene, in ogni immagine di sé che tende a investire, si scontra con il divieto di essere quella forma, quell’immagine, quel momento, non appena si presentano come una sua scelta” (Aulagnier, p.376, 1975).
Voglio dire che questi tre processi credo che siano innescati fondamentalmente dal narcisismo materno e del gruppo familiare allargato, dal contratto narcisistico imposto dal gruppo socio familiare al nuovo membro. Il gruppo attende dal soggetto che la sua voce faccia proprio ciò che enuncia o enunciava la voce del membro più autorevole del gruppo. In cambio il gruppo assicura lo stesso riconoscimento che godeva lo scomparso….
Lo dico in 4 parole per ovvi motivi di tempo.
Stanno venendo alla mia osservazione clinica, oggi molto più che in passato, adolescenti e tardo adolescenti arenatisi negli studi perchè sentono di aver fatto la scelta di una certa facoltà universitaria per venire incontro alle aspettative dei genitori e non per seguire le proprie inclinazioni. Si sono sentiti trattare come delle propaggini genitoriali… Io farei cosi… avrei fatto così… e quando per sottrarsi alla tirannide delle aspettative genitoriali si sono rivolti al gruppo familiare allargato, per trovare dei riferimenti identificatori alternativi, peggio che andare di notte. Tuo nonno era medico, tuo zio faceva l’ingegnere, ti conviene seguire una di queste strade…spesso si tratta di ragazzi che ricevono attenzione e sostegno ma all’implicita condizione di adeguarsi agli obiettivi narcisistici dei genitori (vedi il dramma del bambino dotato di A. Miller) ma quando si chiede a questi ragazzi cosa piacerebbe loro fare, quali sono i loro desideri, dicono di non saperlo, qualcuno dice di non averlo mai saputo.
Come può succedere questo?
Una possibile chiave di lettura è la seguente: sappiamo che il desiderio fa vivere al soggetto l’esperienza di essere decentrato, l’oggetto, cioè, diventa il proprio centro, il centro è fuori di lui. Già questo può comportare un odio nei confronti dell’oggetto, per la dipendenza che procura. L’odio viene prima dell’amore. Il desiderio induce quindi la coscienza della separazione spaziale e della discronia temporale con l’oggetto, a causa della dilazione necessaria all’esperienza di soddisfacimento. Se, comunque, questa esperienza avviene in tempi ragionevoli allora può avvenire il gioco del rocchetto, fort – da, la mamma non c’è ma tornerà.
Quando invece l’esperienza del soddisfacimento è troppo dilazionata, l’effetto combinato della distanza spaziale con l’oggetto, sentita come incolmabile, e della inevitabile discronia temporale, sentita come infinita, possono provocare risentimento, odio e disperazione tali da far perdere la fiducia che i propri desideri possano essere esauditi, che l’assenza è solo temporanea e non significa abbandono e che l’oggetto non è necessariamente intrusivo, manipolativo oppure si trova ad una distanza siderale. Allora si attiva l’aspirazione al niente al desiderio di non desiderio, all’abbassamento delle tensioni al livello zero, la realizzazione allucinatoria negativa del desiderio, quel narcisismo di morte che colora una varietà di espressioni cliniche che vanno dall’afanisi al ritiro autistico, al narcisismo megalomane e distruttivo, all’anoressia di vivere, alla Clinica in difetto di sentimento di esistenza (Balsamo).
Per evitare queste derive sappiamo come sia necessaria quella funzione di accompagnamento (Rinaldi, 2012) svolta dai genitori nei confronti dei figli, che consente innanzitutto di capire oltre ai loro bisogni anche quali sono i desideri dei figli improcrastinabili e quelli che non lo sono, quanto sia necessaria una presenza genitoriale attenta e discreta per insegnare ai figli a pensare, a raccontarsi, a guardarsi dentro per scoprire le proprie inclinazioni, a mediare, in definitiva, tra principio di piacere e principio di realtà e così via. Ma per svolgere queste funzioni si deve avere veramente voglia di dedicare tempo ai figli, ma per il puro piacere di stare con loro, giocando con loro e lasciando sullo sfondo anche la funzione educativa sottesa all’imparare giocando e al rispetto delle regole di gioco. Diceva Freud (1907) in Il poeta e la fantasia che l’attività ludica del bambino è paragonabile a quella dello scrittore, come quest’ultimo il bambino si crea attraverso il gioco un mondo personale, ” riordina le cose del suo mondo a suo gradimento”. E’ questa la via maestra per capire di che pasta sono fatti i propri figli. Purtroppo, però, i genitori dei ragazzi di cui sto parlando non hanno giocato coi loro figli. Non avevano il tempo di farlo perchè troppo narcisisti ed alla continua ricerca di conferme dall’esterno per il mantenimento della loro autostima.